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“Mungibeddu” è una ricerca personale che ho iniziato dopo quattro anni lontano dalla Sicilia. Un tentativo per riappropriarmi delle mie radici, dopo la sensazione di disorientamento legata al distacco dalla terra natia. Una sensazione che si è trasformata in un ritorno mentale e affettivo. L’appartenenza, la restanza di cui parla Vito Teti, per me è collegata al paesaggio. Sempre Teti afferma:

“Siamo costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza d’esistere al di fuori e al di là del perimetro noto. Ogni luogo non è solo articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente e richiede un’organizzazione simbolica tramata di tempo, memoria ed oblio.”

L’Etna è proprio quel luogo in cui mi sono connesso più volte alla mia terra. Un luogo in cui mi sono sentito piccolo, indifeso ma pieno di energia. Una connessione forte con una natura possente che mi allinea con spazi e tempi sospesi. In quei paesaggi la solitudine mi porta alla beatitudine. A 2.800 metri, tra dune nere e distese in cui l’occhio si perde, mi sento a contatto con il Sublime; una bellezza in cui ci si può perdere, una natura che può anche distruggere. La mia ricerca sulle geometrie del paesaggio, sulla classificazione delle rocce e delle specie vegetali, è un modo per conoscere il vulcano e la sua anima, che va scoperta allo stesso modo dell’anima di una persona. È possibile che non venga rivelata subito e che il suo diventare familiare richieda molto tempo e ripetuti incontri. Dopo due anni il tentativo di ricerca non sta solo diventando taumaturgico per me, sta diventando un’articolata documentazione su un luogo che ha bisogno di essere raccontato con un approccio diverso.

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